Riporto qui il
post citato in precedenza, per facilitare la lettura
La lingua italiana è piena di parole decisamente arabe; parole semplici, comunissime, che usiamo quotidianamente.
Queste entrarono a far parte della nostra lingua già in epoca antichissima quando gli Arabi, più o meno dal 650 al 1100 dC, furono i nostri veri padroni, padroni del Mediterraneo.
Conquistarono un immenso territorio che si estendeva come un enorme abbraccio dai confini dell’India, attraverso l’Africa settentrionale, fino ai Pirenei.
In Italia tennero a lungo la Sicilia, crearono capisaldi sulle coste Italiane dalla Puglia alla Liguria, entrarono in Piemonte, sino alle Alpi.
E si sa che tutti i conquistatori lasciano sul terreno non solo sangue e distruzioni, ma anche costumi, usanze e linguaggi.
Però furono soprattutto i commerci che l’Italia tenne col loro mondo, praticamente da sempre, i veri responsabili dell’adozione, da parte nostra, di parole arabe.
Sin dall’epoca delle Repubbliche Marinare i nostri mercanti avevano uffici, oltre che in patria, anche in quelle terre; nei mercati e nelle “borse”, sino al secolo XIX non era l’inglese la lingua che gli imprenditori dovevano conoscere bene per gestire i loro affari, ma l’arabo.
Per questo i numeri che usiamo da sempre sono quelli cosiddetti arabi (in realtà sono sanscriti); e se dall’1 al 9 noi usiamo per pronunciarli parole d’origine latina lo zero è, in tutto il mondo, esclusivamente loro: sifr, dal quale deriva anche la parola cifra.
Allo stesso modo tara è la tarh (detrazione); tariffa è la ta’rifa (notizia pubblicata); gabella la qabala (parola di origine ebraica) e il tentare la fortuna attraverso la cabala per riuscire a pagarle invece voleva dire affidarsi alla qabbalah, (tradizione dell’interpretazione delle sacre scritture).
Allora, come ora, le merci venivano acquistate tramite sensali (simsar, mediatore), trasportate da facchini (faqih) in grandi fardelli (fard, uno dei due carichi del cammello) dentro magazzini (makahzin) o fondachi (funduq, deposito) e meticolosamente inventariate su taccuini (taquim, giusta disposizione).
I genovesi furono i primi a stiparli di cotone (qutun) e di pietre quali lapislazzuli(lazuward, azzurro).
Altri, in una gara (gara’) all’importazione, prediligevano albicocche (al-barquq), carciofi(kharshuf), arance (narangia), limoni(limum), asparagi (aspanakh), zibibbo (zabib),zucchero (sukkar) e zafferano (za’faran).
Le carovane (carwan, compagnie mercantili), ne riempivano le stive a bizzeffe (bizzaf, gran quantità); poi ogni ammiraglio (amir, capo principe della flotta), dopo una sosta indarsena (dar-sina’a, casa del mestiere) per controllare che tutto fosse a posto, dava l’ordine ai marinai di staccare le gomene (ghumal) dalle bitte dei moli e iniziare la navigazione verso casa.
Di notte, con la nuca (nukha, midollo spinale) piegata all’indietro, il comandante coi suoi strumenti osservava lo zènit (il punto della volta celeste perpendicolare alla testa di chi osserva il cielo) e studiava il nadìr (il punto opposto allo zènit).
Sferzato dallo scirocco (shuluq) e dal libeccio (lebeg), pensava alle serate tranquille trascorse a casa sua sdraiato sul divano (diwan) giocando a scacchi (schiah) con la moglie e sorseggiando sciroppo (sharub) di ribes (ribas) e sherry (xeres), mentre i figli allegri in giardino si scatenavano in partite a volano con le racchette (rahet, palmo della mano).
Il mercante invece, in pigiama (payjamé, vestito con le gambe) sdraiato sul materasso (matrah) non riusciva a dormire.
Sorseggiando caffè (kahvè), teneva stretta a sé la valigia (valiha) degli ori, paventando l’irruzione di un ladro reso magari talmente violento dall’alcol (al-kuhl) da diventare un feroce assassino (hashishiìn, drogato di hashish).